L’obesità non è un problema estetico, ma una vera e propria condizione patologica, in quanto si associa allo sviluppo di svariate malattie.
Il metodo con cui più comunemente si definisce l’obesità è l’Indice di Massa Corporea (BMI), che è dato dal rapporto tra il peso corporeo espresso in Kg e il quadrato dell’altezza espressa in m: un BMI compreso tra 25 e 29.9 Kg/mq identifica il soprappeso, al di sopra di 30 definisce la vera e propria obesità, che può essere di vario grado e viene indicata come “patologica” o “severa” se questo supera i 40 kg/mq.
La eziopatogenesi dell’obesità non è da ricercare, a dispetto delle comuni credenze, in disfunzioni endocrine o malattie genetiche in senso stretto, che rappresentano una piccolissima e quasi trascurabile percentuale dei casi di obesità.
D’altro canto è vero che l’obesità si caratterizza per un pattern ormonale molto complesso, che ad oggi conosciamo solo in parte.
Ed è pure vero che lo sviluppo di questa condizione richiede sicuramente un substrato genetico, che peraltro sembra essere molto diffuso nel genere umano e affonda le radici negli albori della storia dell’uomo: si parla di thrifty gene hypothesis , per indicare una particolare capacità di stoccare i nutrienti provenienti dall’esterno, acquisita dal nostro organismo in tempi di scarsità di risorse alimentari; è come se avessimo sviluppato un codice genetico “risparmiatore”, in grado di immagazzinare enormi quantità di energia a fronte di uno scenario ambientale in cui poche erano le riserve di cibo e difficili da accaparrare.
Questo assetto genetico deve essere risultato particolarmente favorevole per la sopravvivenza nei tempi bui dell’umanità e questo ne spiega probabilmente il successo in termini evolutivi e più semplicemente la sua diffusione.
Se veniamo ai giorni nostri, è stridente il contrasto tra la disponibilità di alimenti sofisticati, altamente energetici e in quantità che eccedono largamente il fabbisogno del singolo e le energie necessarie per procurarsele: il dispendio energetico che ci richiede il fare la spesa è spesso solo quello di guidare la macchina per arrivare al supermercato.
Il nostro “vecchio” patrimonio genetico ha continuato a lavorare anche in questo clima di mutate risorse ed esigenze, arrivando però ben presto al collasso.
Un destino, che, se non corriamo ai ripari, attende una larga fetta del genere umano: basti osservare l’aumento di incidenza delle cosiddette patologie del benessere (obesità, diabete, ipertensione arteriosa, dislipidemia) nei paesi in via di sviluppo, il cui livello di arricchimento si misura paradossalmente proprio sulla loro capacità di riprodurre le patologie “occidentali”.
A questo proposito, l’OMS sta lanciando numerose campagne per stigmatizzare i pericoli di quella che sta assumendo i contorni di una vera e propria “epidemia” o meglio “pandemia”.
Recentemente l’Assemblea delle Nazioni Unite ha definito la combinazione diabete/obesità “ una questione internazionale di salute pubblica”, un primato finora riservato solo all’AIDS.
Il sovrappeso e l’obesità sono infatti le principali cause dei disordini del metabolismo glucidico (in passato definite “Diabete alimentare”) e lipidico (ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia), nonché dello sviluppo di un altro temibile killer, l’ipertensione arteriosa.
Con queste sue pericolose filiazioni, l’obesità condivide il rischio di sviluppare malattie altamente invalidanti e spesso mortali, come l’infarto miocardico, lo scompenso cardiaco e l’ictus.
Ad ammalarsi in questi casi, spesso con l’aiuto di un’altra nociva abitudine, il fumo di sigaretta, è la parete dei vasi sanguigni, che possono essere di varie dimensioni e interessare diversi distretti del corpo umano:
oltre alle coronarie e alle carotidi (responsabili delle malattie cerebro-cardiovascolari in senso stretto), non dobbiamo dimenticare le arterie degli arti inferiori, che, se colpite, possono portare a dolore inizialmente durante la deambulazione e successivamente a riposo, fino alla morte dei tessuti che esita in amputazione di vario grado delle estremità;
le arterie dei reni e le loro diramazioni più sottili, responsabili dell’instaurarsi dell’insufficienza renale che può portare alla dialisi;
le arterie e i capillari degli occhi che possono pregiudicare l’integrità della vista fino ad arrivare alla cecità.
Altre malattie trovano nell’obesità un terreno predisponente: tra tutti merita ricordare alcuni tumori (soprattutto del colon e dell’apparato riproduttivo femminile), la steatosi epatica (il fegato si presenta come “infarcito” di grasso e questo innesca gradi diversi di infiammazione, che in alcuni casi, seppure non molto numerosi, possono condurre alla cirrosi), alcune malattie respiratorie (Sindrome da ipoventilazione e delle apnee nel sonno), i calcoli della colecisti, alcune malattie muscolo-scheletriche, prima tra tutte l’artrosi, che spesso diventa un complice nel rinforzare il circolo vizioso che sottende lo sviluppo dell’obesità, soprattutto nell’anziano, che si trova ad essere funzionalmente più limitato e finisce per essere confinato in casa a mangiare.
E ancora sono da considerare le varici venose, l’aumento di sudorazione con sovrainfezioni cutanee micotiche e batteriche, e l’elenco potrebbe continuare.
E’ importante ricordare inoltre che nella donna giovane l’obesità si accompagna spesso alla “Sindrome dell’ovaio policistico”, un’entità clinica poco definita che si può estrinsecare in una varietà di quadri che vanno dalle irregolarità mestruali, associate ad acne ed irsutismo, all’infertilità.
Nella donna fertile inoltre l’obesità può complicare una situazione fisiologica come la gravidanza, aumentando il rischio di patologie gestazionali, come il diabete e l’ipertensione, che possono condurre da un lato a malformazioni fetali fino alla morte intrauterina e dall’altro all’eclampsia, che costituisce un rischio di vita anche per la madre.
Recenti evidenze sembrano inoltre dimostrare che i figli di una madre obesa sono a loro volta a maggior rischio di sviluppare obesità e diabete sia in età evolutiva che adulta.
Questo ci porta ad affrontare un’altra dolorosa realtà del mondo moderno che è costituita dall’obesità infantile: qui giungono al pettine i nodi di una società che ha sostituito i giochi all’aria aperta con il computer e la televisione e le sane abitudini alimentari con il cosiddetto junk food (cibo spazzatura).
Infine, da ultimo ma non per ultimo, bisogna considerare i risvolti psicologici e psicopatologici dell’obesità, che se da un lato ne sono un humus fertile (basta considerare i Disturbi della Condotta Alimentare e gli effetti indesiderati di alcuni farmaci psichiatrici), dall’altro ne sono una temibile conseguenza, in un circolo vizioso che si automantiene e spesso limita gli sforzi terapeutici.
Di fronte alla dilagante epidemia di obesità siamo piuttosto disarmati: la ricerca farmacologica continua a studiare nuove e peraltro costose molecole, ma ad oggi i risultati in questo settore si sono dimostrati piuttosto deludenti.
In alcuni selezionati casi un aiuto può venire dalla chirurgia bariatrica, cioè la chirurgia dell’obesità (sono molto pubblicizzati gli interventi di bendaggio gastrico regolabile, i palloncini intragastrici, il by-pass gastrico ecc): non si deve comunque dimenticare che questi interventi possono essere gravati da complicanze sia nel periodo operatorio che post-operatorio (tra tutti, squilibri elettrolitici, deficit di assorbimento di alcuni nutrienti) e che non sono raccomandabili per tutti.
Ci rimane come unica arma la strategia comportamentale, che è la più difficile ed impegnativa, ma anche la più economica e naturale e che è in ultima analisi la prevenzione.
In altre parole, muoversi di più e mangiare meno e meglio. Il che implica prima di tutto un atteggiamento culturale di riscoperta delle sane e sagge vecchie abitudini (la dieta è un’operazione prima di tutto mentale e come tale richiede una motivazione profonda).
Ancora una volta la riscoperta delle nostre radici potrebbe salvarci da quel destino di autodistruzione a cui talvolta ci spingono “le magnifiche sorti e progressive”.